Ministranti contro chierichetti: palla al centro

da leggere - almeno nelle premesse - con un po' di autoironia

Il ministrante, i liturgisti ci insegnano che questa è la parola giusta per descrivere bene il compito di chi adempie un particolare servizio all'altare, di. chi — appunto — "ministra", serve i sacri ministri. Dice un compito, un "munus" (uno specifico) che non è una semplice coreografia di fanciulli più o meno addestrati. bensì un particolare modo di partecipare all'azione liturgica. in cui ciascuno (popolo, cantori, ministranti, ministri...) è chiamato a compiere (e ad esserci) ciò che a lui compete.

Fin qui, tutto bene! C'è un però: sebbene siano più dì trent'anni che questo vocabolo è stato introdotto nella scienza liturgica e che si sia fatto di tutto (e giustamente) per "inculcarlo" nelle nuove generazioni, di fatto, il ministrante non ha ancora "scalzato"... il chierichetto!

Si, i chierichetti (o anche, con le pari opportunità che cominciano a far capolino nella liturgia, le chierichette). Sono loro i veri protagonisti dello "spettacolo" liturgico: con i bei vestitini che vanno dalla tradizionalissima sottanina rossa o nera con la cotta bianca, all'innovativo camice monastico, reclutati tra i più piccoli del catechismo (...sono cosi carini!), un po' (sempre più) impacciati e con il perenne sguardo nel vuoto misto a terrore e sorpresa (in parole povere: "e adesso che faccio? ") danno certamente un po' dì colore e folklore a quelle celebrazioni domenicali di cui, ormai, conosciamo fin troppo bene il programma, l'esecuzione e lo svolgimento. Per lo meno ci tengono svegli. e se compiono qualche errore (magari eclatante, come un solenne inciampo e relativa caduta di piante, candelieri e tovaglia) ameno la celebrazione diventa un po’ più viva (e sopportata) ...

Ho volutamente contrapposto le due parole e le due spiegazioni:. la prima tecnicamente perfetta (ma decisamente asettica), la seconda colorita e "cattivella" , ma sentimentale, se non superficiale.

Il problema è che né la prima né la seconda ci aiutano a scoprire chi è veramente colui che — accanto al sacerdote — partecipa alla celebrazione liturgica, E i risultati di questa "radicale" incomprensione li abbiamo sotto gli occhi: sempre meno cura e interesse verso questo servizio.

Credo che occorra, allora, fare un passo indietro. Se è vero che questo "ministrante" o "chierichetto" appartiene — di diritto — alla comunità cristiana occorre che quest'ultima lo desideri, lo accolga e lo accompagni.

Faccio tal esempio per capire. Ci sono comunità (parrocchiali e non) in cui esistono dei bei cori, alcuni tecnicamente perfetti, altri composti da buone persone con tanta passione, altri ancora forse molto limitati (nel repertorio e nell'esecuzione) ma certamente desiderosi di dare il meglio di sé. Il desiderio di animare e vivere la liturgia è sentito e si traduce in una realtà concreta. Non sarà sempre scevra di errori liturgici o artistici; di fatto è un'espressione vitale di quella comunità.

Per i ministranti il punto di partenza non è molto dissimile.

Possono nascere, vivere e crescere se la comunità cristiana riconosce in essi non tanto un collegio di inservienti (oramai il volontariato in chiesa è sempre pii problematico!) quanto  un'espressione vitale a lei connaturale come il coro, i gruppi giovanili e della terza età, le catechesi per adulti, la Caritas etc...

È il primo passo. E forse il primissimo passo lo dobbiamo fare noi sacerdoti, che siamo a capo di queste comunità come pastori e servitori. Anzitutto noi dovremmo aiutare a riscoprire questo servizio, con caratteristiche sue proprie, non credendolo solo un '`accessorio" per le messe più solenni ma a modo per in-dirizzare alcuni ragazzi (e ragazze, laddove è permesso), a comprendere e a vivere l'azione liturgica secondo lo spirito della Chiesa.

Dico alcuni, perché non tutti possono essere "portati" a questo servizio (la molteplicità dei ministeri, nella Chiesa, à conosciuta da circa 2000 anni!); e credo che a questi ministranti dobbiamo far nascere il gusto della bellezza di Dio, delle cose sante, dei santi segni (come diceva Romano Guardini) per poi far germogliare, se il Signore ha posto il seme, il frutto di una vocazione di speciale consacrazione, sacerdotale nel caso di soggetti maschili, religiosa, missionaria in lutti i casi.

Ecco, qualcuno dirà, visto che li vuoi fare piccoli preti?

Nel caso delle ministranti escludo a priori (non ho voglia di passare per l'ex S. Uffizio ...). Per i ministranti … perché no? Chi sono io per credere che Dio non chiami anche questi ragazzi? E poi — diciamocelo — il primo punto da recuperare non è lì, e credo d'esser stato chiaro.

Se non amiamo questo "specifico", questo "munus", lo perderemo per sempre, e le nostra comunità dietro a noi.

Ma per amarlo occorre conoscerlo (se l'abbiamo vissuto in prima persona ancora meglio) e conoscerlo non solo con la testa né solo con lo stomaco.

Concludo: vorrei che queste riflessioni non appaiano "campate per aria". Come parroco (e curato) so bene quanto sia difficile trasmettere dei valori che non trovano un terreno su cui attecchire. Mi riferisco a quei "non — terreni" che possono essere certe famiglie, la società consumistica, il mondo dello sport fine a se stesso ... Va bene, li conosciamo tutti questi ostacoli: ma io, in prima persona, sia che sia prete, come che sia catechista, animatore, genitore. giovane di A.C. o di qualche movimento, quanto ci credo?

Raccoglierò forse pochi frutti, ma quando celebro l'Eucaristia — in particolare quella domenicale — cosa "trasmetto" nei gesti, nelle parole (fatte anche di silenzi), negli atteggiamenti? E la liturgia? La conosco, la servo, la vivo (anche quando proprio non "l'amo")?

Domande, le cui risposte potranno essere le basi — a mio avviso — per cominciare a non avere più dei "chierichetti" ma dei "ministranti".

don Federico Icardi